giovedì 16 agosto 2012

Il problema è la direzione dello sguardo

Da un po' di tempo ormai non so dove guardare.
Tutti quelli che conosco, nel vano tentativo di consolarmi, di dirmi una parola di conforto o di amicizia mi dicono una frase che detesto, tra le tante altre che ho scoperto in questi mesi di detestare. 
Mi dicono, atteggiando il viso in un'espressione di saggezza, di lungimiranza, da persone navigate o solo piene di fiducia: "guarda avanti".
Volendo pure sorvolare sull'improprietà di linguaggio su cui non è il caso di soffermarsi, questo gran numero di persone mi esorta a guardare al mio possibile brillante e progressivo futuro.
Con sguardo luminoso e gesto della mano sicuro, essi vedono davanti a sé stessi e a noi umanità tutta, le magnifiche sorti che ci spettano di diritto: generica felicità; un uomo o una donna che ci amerà per sempre; un lavoro che ci rappresenterà e ci soddisferà; bambini biondi da coccolare, case accoglienti che ci ripareranno e vacanze verso isole dei mari del sud. 
Questo e tutta una gamma intermedia di situazioni che inevitabilmente tenderanno alla nostra felicità duratura. 
E immancabile.
Da telefilm degli anni 'Ottanta. Oppure anche meno, qualche fastidio o inconveniente, perché vivere tutto il tempo dentro "Love Boat" oppure "Casa Keaton" potrebbe essere pericoloso per la salute. 
Io non vi dirò che cosa vedo se guardo nella direzione che con il gesto sicuro di cui dicevo prima essi mi indicano, per non essere accusata della più grave colpa di cui un essere umano moderno possa macchiarsi dopo il genocidio e lo stupro seriale, e cioè il pessimismo.
Tuttavia il problema non è nemmeno cosa vede chi guarda, cioè io, il problema è che io non vedo nulla.
Ho perso il mio "avanti".
Il mio futuro, quello a cui guardavo anche io, con fiducia a tratti moderata a tratti più convinta, non c'è più. Si è sgretolato in pochi minuti, in una frase, in una sera di maggio.
E allora cosa faccio io?
Faccio quello che fanno tutti, o almeno credo, quando perdono la via di fuga, la prospettiva del loro sguardo.
Invece di "avanti" guardo "indietro".
Scopro che ho sempre avuto problemi con gli “avanti” e che mi è più congeniale la marcia indietro, e anche certamente più facile.
Guardo indietro e cerco di capire cosa ho sbagliato.
Purtroppo l'esercizio si conclude anche prestino perché quello che ho sbagliato lo so già che cos'è. 
Oso dire che lo sapevo mentre lo stavo sbagliando oppure appena un attimo dopo averlo appena sbagliato.
Quindi guardo e riguardo, ma solo per aggiungere nuove sfumature di grigio alle cose già conosciute, per ricordare meglio un particolare, per definire una situazione, proprio quella che ha prodotto la catastrofe.
L’esercizio non è nemmeno dei più proficui perché io, pur conoscendo l’errore e pur riconoscendo che la mia reazione alla cosa è stata sbagliata, inevitabilmente, alla prossima occasione di agire diversamente non mancherò, invece, di agire conformemente.
Conformemente a me stessa.
Ripeterò il medesimo o i medesimi errori, che ho fatto già tante volte.
Sto quindi cercando di smettere.
Di smettere di guardare non di smettere di sbagliare.
Smettere di sbagliare non mi è possibile, ormai lo riconosco.
Allora, se non ho un futuro a cui tendere né un passato da sezionare, non mi resta che guardare al mio “adesso”.
Il mio “adesso” è una serie infinita di momenti, uno identico all’altro in una teoria infinita.
Istanti indistinguibili, fatti di una pulsazione sorda, come di un battito, che mi assorda pur trovandosi al di sotto delle cose.
Credo di sapere che cos’è. 





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