Da un po' di tempo ormai
non so dove guardare.
Tutti quelli che
conosco, nel vano tentativo di consolarmi, di dirmi una parola di conforto o di
amicizia mi dicono una frase che detesto, tra le tante altre che ho scoperto in
questi mesi di detestare.
Mi dicono, atteggiando
il viso in un'espressione di saggezza, di lungimiranza, da persone navigate o
solo piene di fiducia: "guarda avanti".
Volendo pure sorvolare
sull'improprietà di linguaggio su cui non è il caso di soffermarsi, questo gran
numero di persone mi esorta a guardare al mio possibile brillante e progressivo
futuro.
Con sguardo luminoso e
gesto della mano sicuro, essi vedono davanti a sé stessi e a noi umanità tutta,
le magnifiche sorti che ci spettano di diritto: generica felicità; un uomo o
una donna che ci amerà per sempre; un lavoro che ci rappresenterà e ci
soddisferà; bambini biondi da coccolare, case accoglienti che ci ripareranno e
vacanze verso isole dei mari del sud.
Questo e tutta una gamma
intermedia di situazioni che inevitabilmente tenderanno alla nostra felicità
duratura.
E immancabile.
Da telefilm degli anni
'Ottanta. Oppure anche meno, qualche fastidio o inconveniente, perché vivere
tutto il tempo dentro "Love Boat" oppure "Casa Keaton"
potrebbe essere pericoloso per la salute.
Io non vi dirò che cosa
vedo se guardo nella direzione che con il gesto sicuro di cui dicevo prima essi
mi indicano, per non essere accusata della più grave colpa di cui un essere
umano moderno possa macchiarsi dopo il genocidio e lo stupro seriale, e cioè il
pessimismo.
Tuttavia il problema non
è nemmeno cosa vede chi guarda, cioè io, il problema è che io non vedo nulla.
Ho perso il mio
"avanti".
Il mio futuro, quello a
cui guardavo anche io, con fiducia a tratti moderata a tratti più convinta, non
c'è più. Si è sgretolato in pochi minuti, in una frase, in una sera di maggio.
E allora cosa faccio io?
Faccio quello che fanno
tutti, o almeno credo, quando perdono la via di fuga, la prospettiva del loro
sguardo.
Invece di
"avanti" guardo "indietro".
Scopro che ho sempre
avuto problemi con gli “avanti” e che mi è più congeniale la marcia indietro, e
anche certamente più facile.
Guardo indietro e cerco
di capire cosa ho sbagliato.
Purtroppo l'esercizio si
conclude anche prestino perché quello che ho sbagliato lo so già che
cos'è.
Oso dire che lo sapevo
mentre lo stavo sbagliando oppure appena un attimo dopo averlo appena sbagliato.
Quindi guardo e
riguardo, ma solo per aggiungere nuove sfumature di grigio alle cose già
conosciute, per ricordare meglio un particolare, per definire una situazione,
proprio quella che ha prodotto la catastrofe.
L’esercizio non è
nemmeno dei più proficui perché io, pur conoscendo l’errore e pur riconoscendo
che la mia reazione alla cosa è stata sbagliata, inevitabilmente, alla prossima
occasione di agire diversamente non mancherò, invece, di agire conformemente.
Conformemente a me
stessa.
Ripeterò il medesimo o i
medesimi errori, che ho fatto già tante volte.
Sto quindi cercando di
smettere.
Di smettere di guardare
non di smettere di sbagliare.
Smettere di sbagliare
non mi è possibile, ormai lo riconosco.
Allora, se non ho un
futuro a cui tendere né un passato da sezionare, non mi resta che guardare al
mio “adesso”.
Il mio “adesso” è una
serie infinita di momenti, uno identico all’altro in una teoria infinita.
Istanti indistinguibili,
fatti di una pulsazione sorda, come di un battito, che mi assorda pur
trovandosi al di sotto delle cose.
Credo di sapere che cos’è.
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