In questi pochi mesi, soli due mesi, due mesi lunghi più del
normale che hanno tagliato la mia vita, che sono diventati un solco tra due
metà di me e sono destinati a diventare un cumulo, una somma, una lunghezza da
contare, ho preso un’abitudine che non ho mai avuto prima.
Durante le giornate che mi sembrano interminabili e calde
per aggiungere pena a pena, ogni tanto mi prende una smania, un’oppressione, mi
alzo dalla mia solita e abusata sedia
e mi affaccio a una finestra.
È un modo per ingannare il tempo, oppure il tentativo di
dare fiato agli occhi e spazio ai pensieri.
Il bisogno di mettere aria intorno alle parole che si
affollano come un nugolo di insetti, senza tregua nella mia testa.
Guardando un panorama, uno spazio più largo spero di
prendere fiato e di respirare un poco.
Comunque sia, qualunque sia il bisogno, anche solo quello di
prendere un poco d’aria in queste giornate terribili di caldo, mi affaccio alle
poche finestre della mia casa.
Non vedo molto purtroppo, niente natura, niente mare, niente
Vesuvio, quelli li ho lasciati in eredità ai nuovi proprietari della mia
vecchia casa, traslocando venti anni fa.
Qui, dove abito ora, da venti anni ormai, e che mi sembra
ancora la mia casa nuova per uno strano senso del tempo che porto con me nonostante
i traslochi, mi devo accontentare di vedere i palazzi che ho intorno.
E così affacciandomi guardo.
Vedo altre finestre, altre luci, altri colori. Altri
rispetto ai miei.
Vedo a volte alcuni dei miei vicini.
I palazzi intorno sono piuttosto grandi e li abitano
parecchie persone. Ho imparato a riconoscerli e a riconoscere alcune delle loro
abitudini.
Così a furia di guardare mi sono resa conto che alle
finestre si affacciano solo le persone anziane, o quelle sole. Spesso, con i
gomiti appoggiati al marmo del davanzale, vedo una dirimpettaia, una donna
piccola, con i capelli bianchi e spumeggianti e gli occhi chiari che per alcuni
minuti si ferma alla sua finestra. Altre volte, e solo all’imbrunire, vedo
un’altra donna, un po’ più giovane, che vive sola, prendere aria con lo sguardo
perso in un punto in mezzo all’aria.
C’è anche un vecchietto, sempre ben vestito, con i pantaloni
e la camicia, che inganna il tempo che gli resta, poco o tanto che sia.
Tutte queste persone si appoggiano al balcone o al davanzale
e guardano, probabilmente senza vedere, fanno andare lo sguardo sullo spazio
che hanno davanti. Stanno lì per qualche minuto, poi rientrano.
I giovani, o le persone occupate nella loro vita quotidiana non
si affacciano mai e se lo fanno è sempre per guardare qualcosa, per rispondere
a una chiamata, per sbrigare una faccenda, per vedere qualcosa che richiede la
loro attenzione.
Anche io per i tanti anni che sono stata qui non ho guardato
quasi mai fuori dalle mie finestre. Non avevo bisogno di spazio, né di fiato.
Il mio mondo esisteva e non avevo bisogno di cercarlo in un pensiero e non
avevo bisogno di ingannare il tempo.
Che poi il tempo non lo inganno neanche adesso, semmai è lui
che ha sempre ingannato me.
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