domenica 22 luglio 2012

Preferirei di no

Ho detto pochissimi sì nella mia vita. 
Li posso contare sulle dita di una mano. 
Per questo il mio nickname nella rete è preferireidino. 
Tutto attaccato. 
Staccato si legge preferirei di no. I would prefer not to. 
È la frase che pronuncia Bartleby lo scrivano. Se c’è al mondo ancora qualcuno che non lo conosce, il protagonista del racconto omonimo di Herman Melville. 
Quando lessi quel racconto, un numero enorme di anni fa, ebbi l’impressione di incontrare una parte di me. Quella creatura spaurita e al tempo stesso ostinata, che fa della sua ostinazione e del suo disorientamento, la sua fine. 
I miei no sono cominciati da subito.
 - Vuoi mangiare? 
 - No 
 - Vuoi giocare con gli altri bambini? 
 - No. 
 Tempo fa ho incontrato un vecchio zio, che non vedevo da anni. Mi ha ricordato che quando ero piccola, ogni volta che lui veniva a casa nostra io mi nascondevo sotto il letto. Mi ha detto che si ricorda poco di come ero perché alla fine, non mi vedeva quasi mai, ero sempre nascosta da qualche parte. Anche io mi sono ricordata che lo facevo molto spesso, con lui e con altri che venivano in visita. Preferivo di no, già da allora. 
Da subito ho capito che i miei “no” erano riprovevoli, che non era bello né educato, che non stava bene dire no. 
Mia madre tentava di convincermi, poi, non riuscendoci, di fronte alla mia ostinazione silenziosa cercava di indurmi alla ragione argomentando sulla giustezza dei riti sociali dell’infanzia: giocare con gli altri bambini era una cosa buona e giusta, andare alle feste anche, fare amicizia e tutto il resto, era necessario. 
Niente da fare, da piccola ero un osso duro. 
Però ho cominciato a capire che dire di no mi esponeva a scontri e schermaglie senza fine, allora me ne sono stata zitta e ho cercato di farmi vedere in giro il meno possibile, una discreta tecnica che ha dato i suoi frutti fino a quando la società mi ha imposto la scuola dell’obbligo! 
Poi con gli anni ho imparato a dissimulare. 
Ho imparato a dire piccoli sì senza importanza, in modo da dare agli altri un’idea, anche minima, di adesione sociale. 
Nel lavoro, come Bartleby, anche io, sono stata uno scrivano. 
Per molti anni. 
Uno scrivano diligente e attento, ancora più diligente del dovuto perché sapevo che covavano in me il rifiuto e l’ostinazione. Sapevo che erano pronti a saltare fuori e a prendere il sopravvento. 
Ogni giorno, nel mio lavoro ho cercato di tenerli a bada, dandomi da fare, arrivando per prima e andando via per ultima, non rimandando a domani ciò che potevo fare oggi, cercando di convincere me stessa che potevo diventare quello che non ero. 
Sapevo che rifiuto e ostinazione erano le forme in cui si manifestava la mia paura di vivere, sempre in agguato. 
In ognuno di noi, la paura si manifesta in qualche modo, c’è chi crede che sia la sua forza, io sapevo che era la mia debolezza. 
È ancora così. 
Le poche cose a cui ho detto sì, quelle a cui sono andata incontro senza esitare, le ho scelte con la pancia, potrei dire col cuore, cambia poco, comunque non con la testa. 
I sì che dovevano venirmi fuori dalla testa, le cose che reputavo convenienti, sensate, le cose che potevano condurre la mia vita su binari consoni a quello che avrei dovuto volere, per quelle cose i sì non sono mai venuti fuori. 
Quante lacrime, quanta fatica ho fatto, da sola, per convincermi a pronunciarli, poi al momento in cui avrei dovuto farlo, niente, non sono mai venuti fuori, si sono trasformati in no, oppure in fughe. 
Poi, un giorno, ho incontrato una persona simile a me. 
Forse l’ho riconosciuta subito, forse ho capito con il tempo che l’avevo scelta per la sua somiglianza a me. Anche lui è uno che dice di no. 
Lo dice in un modo spaventoso a volte, lo dice con il suo corpo e con ogni suo gesto. 
Lo dice, e questo ha sempre suscitato la mia ammirazione, senza paura di sembrare riprovevole, senza temere il dissenso sociale, perché lui il dissenso non lo ha mai sperimentato. 
Ha vissuto miracolosamente come un piccolo principe a cui tutti danno ragione sempre e comunque. 
Il riconoscimento ha fatto in modo che ci siamo detti sì. A vicenda. 
Un sì enorme, pieno di speranza, di felicità e di futuro. Dentro questo grande sì ce ne sono stati altri piccoli e piccolissimi che hanno fatto la nostra vita insieme. 
Ci siamo dati respiro e abbiamo guardato la vita con altri occhi. Almeno io ho l’ho fatto. 
Oggi lui ha smesso di farlo. Ha smesso di guardare. Ha smesso di dire di sì a me e alla nostra vita. 
La sua paura ha ripreso il sopravvento, gli ha fatto scegliere quello che gli è familiare, quello che sa gestire, tutto quello che può stare dentro una stanza, tra un pavimento e un soffitto. 
Sono rimasta qui da sola, sono stata ributtata nel mio mondo, nel mondo dove preferisco di no, e, dal quale, non uscirò mai più. 
Non ne uscirò perché scelgo di non farlo, perché è tutto quello che so gestire, perché lo spazio che si era aperto adesso si è chiuso. 
Perché sono Bartleby lo scrivano.

Nessun commento:

Posta un commento