mercoledì 10 agosto 2011

Foldare?

A me mi viene l'ansia a guardare in tv quel canale del digitale terrestre dove si gioca a poker tutto il giorno.
Tra l'altro i commentatori hanno un gergo che non comprendo e che loro, consapevoli del fatto che nessuno li capisce, si dilettano nell'utilizzare senza mai fornire una sola spiegazione. Anche minima o che sembri buttata lì per caso.
Oltre all'ansia a dire il vero mi intristisco anche un po'. Non so se la tristezza sia causata dall'incomprensione assoluta oppure dalla visione di quei tizi assurdi, con occhiali da sole e cappellini intorno a un tavolo.
E tra l'altro, cosa diavolo vorrà dire "foldare"?

martedì 9 agosto 2011

Vacanze

Quando ero piccola partire per le vacanze estive era una faccenda molto complessa, che richiedeva una lunga preparazione, molta attenzione e, soprattutto una grande e crescente attesa.
Sapevamo che appena finita la scuola saremmo partiti, ma si capiva che eravamo ormai prossimi alla partenza quando una sequenza di eventi, sempre uguali negli anni, aveva inizio.
Molti giorni prima mia mamma cominciava a radunare le provviste che avremmo portato con noi. Era molto importante scegliere bene e non sbagliare le quantità: esse ci avrebbero consentito di sopravvivere per due mesi.
Mamma comprava soprattutto fettine di carne di tutti i tipi, che divideva poi in pacchettini sui quali scriveva col pennarello rosso, poi li congelava, li avremmo trasportati nelle borse termiche. Diceva che la carne che si vendeva lì dove andavamo era troppo dura, non la facevano “frollare” abbastanza; non si sapeva cosa voleva dire, solo si capiva che ci dirigevamo verso un luogo aspro e selvatico.
Poi toccava ai giocattoli e ai pupazzi della camera che condividevo con mia sorella, venivano imbustati e infilati negli armadi perché non prendessero polvere mentre noi non c’eravamo. Dovevamo scegliere quali volevamo portare con noi, ma pochi però, che saremmo andati al mare e non avremmo avuto voglie di giocare con i giocattoli dell’inverno. La scelta era ardua e si cambiava idea molte e molte volte al giorno. Fino a che mamma si spazientiva e allora ci minacciava di non portare proprio niente.
Quando si cominciava la preparazione delle le valigie quasi c’eravamo. Bisognava pensare a tutto, la biancheria per la casa, i vestiti di tutti, i giocattoli preferiti, le medicine (soprattutto le medicine), e mamma era molto agitata e indaffarata e diceva sempre: “devo pensare a tutto io in questa casa”.

giovedì 4 agosto 2011

Andata e ritorno

Vado e torno.
Lo faccio spesso. Lo faccio sempre.
Se ci penso bene, tutta la mia vita è stata fin'ora un andare e un tornare. 
Prima andavo a scuola. 
Uscivo di casa in un orario che mi sembrava notturno - mi ricordo il freddo di certe mattine - prendevo l'autobus, affollato di ragazzi con le cartelle sulla schiena e di altri viaggiatori infastiditi dal volume delle cartelle sulle schiene degli studenti.
Arrivavo nel cortile della scuola con l'ansia di chi doveva trovare qualcuno che gli facesse copiare la versione che non aveva saputo fare il pomeriggio prima. 
Passavo la giornata a schivare le interrogazioni. 
Tornavo a casa con lo stesso autobus che avevo preso la mattina, stipato all'inverosimile degli stessi ragazzi, con le stesse cartelle e sentivo le stesse invettive degli altri viaggiatori, stipati insieme a noi in quello che pareva più un carro bestiame che un autobus per il trasporto urbano.
Poi è venuto il momento di cambiare percorso. 
Quello nuovo era casa - università. 
Per arrivarci dovevo prendere un autobus e un mezzo su rotaie a scelta. All'inizio percorso quotidiano, seguivamo le lezioni del primo anno in un cinema, non era verosimile, non era faticoso, sembrava di andare ad una festa piuttosto che a studiare.
Dopo l'università i passi si sono fatti più incerti. I percorsi non erano così sicuri, andavo un po' a casaccio e non sapevo bene dove mi sarei diretta il giorno dopo.  Per un periodo ho fatto la spola tra casa, studio di un avvocato e tribunale. Prendevo un sacco di mezzi diversi tra autobus e metropolitane. Ma questo tragitto è durato poco, solo un paio di anni. Non lo sentivo mio, andavo, tornavo, ma mi sembrava di non avere poggiato i passi sull'asfalto. 
Ho cambiato tragitto, allora, ho cominciato ad andare da casa a un ufficio dove ho lavorato per tre anni. 
Ogni giorno svegliarsi, uscire, percorrere lo stesso tratto di strada, prendere l'autobus, lo stesso che prendevo per andare a scuola tanti anni prima, arrivare al lavoro. Sempre alla stessa ora. Poi tornare indietro, correndo dietro all'autobus, perchè se si perde quello, l'ultimo, poi non passano più, finita la giornata. Tre anni di questo dondolio.
Poi la traiettoria è cambiata, mi sono introdotta nelle viscere di Napoli, nei vicoli bui del centro storico, passando nelle caverne tracciate dalla metropolitana. 
Ma era sempre un andare e venire, sempre un dondolarsi tra un uscire e un tornare dentro. Giorno dopo giorno, e poi dopo mese e poi dopo anno.
Quando anche questo è finito mi sono accorta che il mio andare e venire non è finito affatto, ha solo preso un diverso periodo, non  più quotidiano, un tempo più lungo mi separa tra una andare un tornare e l'andare successivo.