sabato 28 luglio 2012

Le finestre e gli occhi


In questi pochi mesi, soli due mesi, due mesi lunghi più del normale che hanno tagliato la mia vita, che sono diventati un solco tra due metà di me e sono destinati a diventare un cumulo, una somma, una lunghezza da contare, ho preso un’abitudine che non ho mai avuto prima.
Durante le giornate che mi sembrano interminabili e calde per aggiungere pena a pena, ogni tanto mi prende una smania, un’oppressione, mi alzo dalla mia solita e abusata sedia  e mi affaccio a una finestra.
È un modo per ingannare il tempo, oppure il tentativo di dare fiato agli occhi e spazio ai pensieri.
Il bisogno di mettere aria intorno alle parole che si affollano come un nugolo di insetti, senza tregua nella mia testa.
Guardando un panorama, uno spazio più largo spero di prendere fiato e di respirare un poco.
Comunque sia, qualunque sia il bisogno, anche solo quello di prendere un poco d’aria in queste giornate terribili di caldo, mi affaccio alle poche finestre della mia casa.
Non vedo molto purtroppo, niente natura, niente mare, niente Vesuvio, quelli li ho lasciati in eredità ai nuovi proprietari della mia vecchia casa, traslocando venti anni fa.
Qui, dove abito ora, da venti anni ormai, e che mi sembra ancora la mia casa nuova per uno strano senso del tempo che porto con me nonostante i traslochi, mi devo accontentare di vedere i palazzi che ho intorno.
E così affacciandomi guardo.
Vedo altre finestre, altre luci, altri colori. Altri rispetto ai miei.
Vedo a volte alcuni dei miei vicini.
I palazzi intorno sono piuttosto grandi e li abitano parecchie persone. Ho imparato a riconoscerli e a riconoscere alcune delle loro abitudini.
Così a furia di guardare mi sono resa conto che alle finestre si affacciano solo le persone anziane, o quelle sole. Spesso, con i gomiti appoggiati al marmo del davanzale, vedo una dirimpettaia, una donna piccola, con i capelli bianchi e spumeggianti e gli occhi chiari che per alcuni minuti si ferma alla sua finestra. Altre volte, e solo all’imbrunire, vedo un’altra donna, un po’ più giovane, che vive sola, prendere aria con lo sguardo perso in un punto in mezzo all’aria.
C’è anche un vecchietto, sempre ben vestito, con i pantaloni e la camicia, che inganna il tempo che gli resta, poco o tanto che sia.
Tutte queste persone si appoggiano al balcone o al davanzale e guardano, probabilmente senza vedere, fanno andare lo sguardo sullo spazio che hanno davanti. Stanno lì per qualche minuto, poi rientrano.
I giovani, o le persone occupate nella loro vita quotidiana non si affacciano mai e se lo fanno è sempre per guardare qualcosa, per rispondere a una chiamata, per sbrigare una faccenda, per vedere qualcosa che richiede la loro attenzione.
Anche io per i tanti anni che sono stata qui non ho guardato quasi mai fuori dalle mie finestre. Non avevo bisogno di spazio, né di fiato. Il mio mondo esisteva e non avevo bisogno di cercarlo in un pensiero e non avevo bisogno di ingannare il tempo.
Che poi il tempo non lo inganno neanche adesso, semmai è lui che ha sempre ingannato me.

domenica 22 luglio 2012

Preferirei di no

Ho detto pochissimi sì nella mia vita. 
Li posso contare sulle dita di una mano. 
Per questo il mio nickname nella rete è preferireidino. 
Tutto attaccato. 
Staccato si legge preferirei di no. I would prefer not to. 
È la frase che pronuncia Bartleby lo scrivano. Se c’è al mondo ancora qualcuno che non lo conosce, il protagonista del racconto omonimo di Herman Melville. 
Quando lessi quel racconto, un numero enorme di anni fa, ebbi l’impressione di incontrare una parte di me. Quella creatura spaurita e al tempo stesso ostinata, che fa della sua ostinazione e del suo disorientamento, la sua fine. 
I miei no sono cominciati da subito.
 - Vuoi mangiare? 
 - No 
 - Vuoi giocare con gli altri bambini? 
 - No. 
 Tempo fa ho incontrato un vecchio zio, che non vedevo da anni. Mi ha ricordato che quando ero piccola, ogni volta che lui veniva a casa nostra io mi nascondevo sotto il letto. Mi ha detto che si ricorda poco di come ero perché alla fine, non mi vedeva quasi mai, ero sempre nascosta da qualche parte. Anche io mi sono ricordata che lo facevo molto spesso, con lui e con altri che venivano in visita. Preferivo di no, già da allora. 
Da subito ho capito che i miei “no” erano riprovevoli, che non era bello né educato, che non stava bene dire no. 
Mia madre tentava di convincermi, poi, non riuscendoci, di fronte alla mia ostinazione silenziosa cercava di indurmi alla ragione argomentando sulla giustezza dei riti sociali dell’infanzia: giocare con gli altri bambini era una cosa buona e giusta, andare alle feste anche, fare amicizia e tutto il resto, era necessario. 
Niente da fare, da piccola ero un osso duro. 
Però ho cominciato a capire che dire di no mi esponeva a scontri e schermaglie senza fine, allora me ne sono stata zitta e ho cercato di farmi vedere in giro il meno possibile, una discreta tecnica che ha dato i suoi frutti fino a quando la società mi ha imposto la scuola dell’obbligo! 
Poi con gli anni ho imparato a dissimulare. 
Ho imparato a dire piccoli sì senza importanza, in modo da dare agli altri un’idea, anche minima, di adesione sociale. 
Nel lavoro, come Bartleby, anche io, sono stata uno scrivano. 
Per molti anni. 
Uno scrivano diligente e attento, ancora più diligente del dovuto perché sapevo che covavano in me il rifiuto e l’ostinazione. Sapevo che erano pronti a saltare fuori e a prendere il sopravvento. 
Ogni giorno, nel mio lavoro ho cercato di tenerli a bada, dandomi da fare, arrivando per prima e andando via per ultima, non rimandando a domani ciò che potevo fare oggi, cercando di convincere me stessa che potevo diventare quello che non ero. 
Sapevo che rifiuto e ostinazione erano le forme in cui si manifestava la mia paura di vivere, sempre in agguato. 
In ognuno di noi, la paura si manifesta in qualche modo, c’è chi crede che sia la sua forza, io sapevo che era la mia debolezza. 
È ancora così. 
Le poche cose a cui ho detto sì, quelle a cui sono andata incontro senza esitare, le ho scelte con la pancia, potrei dire col cuore, cambia poco, comunque non con la testa. 
I sì che dovevano venirmi fuori dalla testa, le cose che reputavo convenienti, sensate, le cose che potevano condurre la mia vita su binari consoni a quello che avrei dovuto volere, per quelle cose i sì non sono mai venuti fuori. 
Quante lacrime, quanta fatica ho fatto, da sola, per convincermi a pronunciarli, poi al momento in cui avrei dovuto farlo, niente, non sono mai venuti fuori, si sono trasformati in no, oppure in fughe. 
Poi, un giorno, ho incontrato una persona simile a me. 
Forse l’ho riconosciuta subito, forse ho capito con il tempo che l’avevo scelta per la sua somiglianza a me. Anche lui è uno che dice di no. 
Lo dice in un modo spaventoso a volte, lo dice con il suo corpo e con ogni suo gesto. 
Lo dice, e questo ha sempre suscitato la mia ammirazione, senza paura di sembrare riprovevole, senza temere il dissenso sociale, perché lui il dissenso non lo ha mai sperimentato. 
Ha vissuto miracolosamente come un piccolo principe a cui tutti danno ragione sempre e comunque. 
Il riconoscimento ha fatto in modo che ci siamo detti sì. A vicenda. 
Un sì enorme, pieno di speranza, di felicità e di futuro. Dentro questo grande sì ce ne sono stati altri piccoli e piccolissimi che hanno fatto la nostra vita insieme. 
Ci siamo dati respiro e abbiamo guardato la vita con altri occhi. Almeno io ho l’ho fatto. 
Oggi lui ha smesso di farlo. Ha smesso di guardare. Ha smesso di dire di sì a me e alla nostra vita. 
La sua paura ha ripreso il sopravvento, gli ha fatto scegliere quello che gli è familiare, quello che sa gestire, tutto quello che può stare dentro una stanza, tra un pavimento e un soffitto. 
Sono rimasta qui da sola, sono stata ributtata nel mio mondo, nel mondo dove preferisco di no, e, dal quale, non uscirò mai più. 
Non ne uscirò perché scelgo di non farlo, perché è tutto quello che so gestire, perché lo spazio che si era aperto adesso si è chiuso. 
Perché sono Bartleby lo scrivano.

martedì 17 luglio 2012

Non è più il mio tempo

A questo punto, forse, non è più importante.
Non so in realtà cosa abbia ancora importanza e cosa no.
Ma io devo avere delle risposte, anche se poi, quelle risposte, mi sembreranno vane, prive di realtà, inutili, incapaci di portare veramente chiarezza, incapaci di dare un senso.
Perché probabilmente nessuna parola che io possa sentire, nessuna giustificazione avrebbe veramente il potere di restituirmi quello che ho perduto.
Ho perduto me stessa, il mio presente, il mio futuro.
Lo so, il futuro non ce l'ha nessuno veramente.
Io però credevo e speravo fortemente di averlo.
Stupida, stupida, creatura.
Vana, ho pensato che per una volta sarebbe bastato volerlo fortemente.
Cieca, ho creduto che al momento giusto il tuo gesto, a lungo atteso, sarebbe arrivato.
Invece è arrivata la defezione, l'ammutinamento, la paura che lascia il posto alla fuga.

Il silenzio non basta. Non basta. Non basta.
Crea un compartimento nel cervello, all'interno del quale proliferano parole senza senso.
Durante tutto il giorno e tutta la notte si affollano come batteri, si rincorrono e si sostituiscono l'una all'altra senza posa.
Tutte queste parole cieche come insetti, come larve, non sono in grado di costruire nulla. Tanto meno una spiegazione. Una verità qualsiasi che garantisca una tregua almeno.
Anche queste che sto digitando istericamente su questa tastiera silenziosa, non sono belle e non sono utili.
Non sono capace di produrre niente che sia bello.
Quindi farò qualcosa di brutto: brutta verità, brutte parole, brutta vita.

Non è più il tempo della speranza, dello sguardo aperto, del respiro lungo, del pensiero.
Non è più il mio tempo, se mai c'è stato un tempo a cui sono appartenuta.
Il tempo che è arrivato è quello del silenzio, del buio, della lenta trasformazione di ogni forma di vita in un fossile. Con la speranza che non venga ritrovato fra milioni di anni.

Come le mummie che vedemmo al British Museum.
Pensai che c'era qualcosa di pornografico nel guardare quei morti che non sanno di essere rimasti rattrappiti nel tempo, a disposizione degli occhi disattenti di tutti.
E degli occhi attenti di alcuni.

Non i miei. I miei occhi non prestano la dovuta attenzione. Non vedono, si distraggono.
Dubito che riusciranno mai più a vedere chiaramente qualcosa.
Tutt'al più intuiranno, e si volteranno immediatamente dall'altro lato, richiudendosi su se stessi.
Se un giorno ritroverete il mio fossile incastrato in una montagna, polverizzatelo, e datemi finalmente un po' di pace.


lunedì 2 luglio 2012

Sono presa dal panico

Sono completamente distrutta e presa dal panico.
Soffro in un modo che non credevo possibile e che non so quando finirà.
E avrei tanto bisogno di scrivere, di raccogliere le idee, di provare a spiegarmi qualcosa che per me è non solo inspiegabile ma assolutamente inconcepibile.
Invece brancolo nel buio della mia mente e non vedo. 
Non vedo cosa c'è fuori.
Non vedo cosa c'è dentro.
Ecco, tutto qui.
Solo questo per ora. 
Spero non per sempre.